domenica 25 dicembre 2022

"IL SALVADANAIO MAGICO", presentazione del Prof. F. Rossi.

  
"IL SALVADANAIO MAGICO"  
Presentazione del Prof. F. Rossi 
Prof. Ordinario di Linguistica Italiana - Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell'Università di Messina

Marje Dolores Merenda lavora sul valore pedagogico e morale, oltreché poetico, dell’immaginazione e della narrazione. Ce lo chiarisce fin dalla presentazione: le favole non sono soltanto belle, divertenti, gradevoli da leggere e da ascoltare, ma aiutano a vivere meglio, aiutano il bambino a fortificarsi e a intessere legami più solidi e funzionali con gli altri e con il mondo. Aiutano, in una parola, a crescere sani. Il tema prediletto dell’autrice è, anche in questa raccolta, quello del binomio Bambini e Natura, o meglio la Sintonia Essere umano – Natura. Il male nasce quando si infrange questa sintonia. Favola emblematica al riguardo è La leggenda del ficodindia, che parte apparentemente da lontano (dal Messico, la terra degli Aztechi) per ricondurci però alla Sicilia fin dal titolo, con la pianta rappresentativa della nostra isola. Quello della natura, insieme con quello della famiglia, è un tema portante di ogni raccolta di favole di Marje Dolores Merenda. 

A me pare, però, che in quest’ultima raccolta emerga anche un tema nuovo: quello della parola, o meglio della sottrazione della parola, dell’importanza di una parola altra, più leggera, più sommessa, prossima al silenzio. Le parole sono fondamentali, nella narrazione, ma l’autrice, in effetti, in questa raccolta dà valore parimenti ai segnali, ai segni senza parole, ai linguaggi non verbali: i colori, i profumi, i suoni della natura. A p. 45 della Leggenda del ficodindiaquesta lingua altra è espressa con grande efficacia e sensibilità: «un linguaggio meraviglioso che non ha bisogno di spiegazioni e permette alla famiglia unita di intendersi senza parlare». È grazie a questo linguaggio altro, che lega gli affetti familiari, che i felini riescono a sconfiggere il gelo e a salvare la vita della loro pianta madre, Nopàl, ovvero il ficodindia.

Anche a p. 64, L’usignolo muto, torna il linguaggio non verbale mediante il quale l’imperatore del Giappone riesce a comunicare con l’usignolo: «Col tempo impararono a capirsi perché entrambi conoscevano il meraviglioso linguaggio dell’intuizione, che è linguaggio universale quando ascolti e parli agli altri con cuore aperto e sincero. L’uno poteva fidarsi dell’altro!».

È bello che una scrittrice, che vive di parole, riconosca, quasi per paradosso, questa importanza al non verbale, che qui è ribadito sin dal titolo: muto. Questa favola, poi, oltreché dedicata al rapporto tra uomo e natura, è incentrata sull’importanza della libertà. E il tema della libertà, connesso a quello della natura, si ricollega a quello della comunicazione non verbale. È infatti grazie alla libertà che i piccoli usignoli imparano a cantare, ed è, la loro lingua cantata, «una magia naturale, l’inno spontaneo alla bellezza e alla libertà, il canto che viene dal cuore e nessuna voce può essere più armoniosa ed intonata» (p. 71). La libertà dà la voce, dunque, ma, come sottolinea Cinzia Donatelli Noble nella prefazione, a p. 16, è vero anche l’opposto: la voce dà la libertà, perché ci collega agli altri.

Il rapporto tra il detto e l’indicibile, insomma, è la cifra distintiva di questa nuova raccolta di favole, il cui sottotitolo alternativo potrebbe essere Oltre le parole. Far parlare i libri perché ci dicano del non dire, della lingua alternativa a quella delle parole. In questo paradosso Marje Dolores mi sembra in linea con molti poeti e artisti che, dopo aver celebrato la parola nei suoi virtuosismi più sfrenati, approdano al silenzio. È quel che fa l’ultimo Fellini, nella Voce della luna, quando fa dire a Roberto Benigni, alla fine del film: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire». Il riferimento al cinema mi rimanda ancora una volta, così come la musica, a un linguaggio alternativo a quello delle parole, cioè quello delle immagini e della fantasia, così vicino a quello delle favole e a quello dei meravigliosi disegni che impreziosiscono questa raccolta.

Ma vediamo altri brani del volume nei quali si esalta il valore del silenzio. A p. 95, U’ Mirìcu (L’ombelico, il mostro a guardia delle Gole di Tiberio nel Parco delle Madonie): «l’amabilità di quegli occhi pieni di lacrime che, senza parlare, esprimevano l’ansia e lo smarrimento». E ancora a p. 101: «quel volto soave che aveva saputo conquistarlo senza parlare».

Anche nella prima favola, eponima dell’intero volume, Il salvadanaio magico, incontriamo un interessante riferimento alle parole. Qui non viene esaltato il silenzio ma qualcosa che va comunque oltre le parole: il passaggio dall’astratto al concreto (p. 30).

Spesso più che le parole, la voce umana, conta la voce della natura, e soprattutto degli animali, come in ogni favola che si rispetti. Lo vediamo, tra l’altro, in La colomba e la civetta (p. 81). Questa favola, tra l’altro, contiene un altro tema carissimo all’autrice e dal valore educativo, etico e civile senza pari: la lotta contro il razzismo e la discriminazione a ogni livello. Le parole chiave della conclusione di questa favola sono infatti amoreaccoglienza e pregiudizi (p. 85).

E arriviamo all’ultima favola, Il volto del Tempo, p. 111: «i suoi occhi rilucevano come stelle e parlavano senza dire»; «Le facce trasognate del piccolo, nella mamma e del papà, più eloquenti di tanti sapienti discorsi, gli avevano raccontato una storia emozionante». Questa favola presenta uno scarto rispetto alle altre, anche nello stile dei disegni: prevalgono toni cupi (marrone) e malinconici. Apprendiamo infatti dalla prima pagina della raccolta che essa è stata scritta durante il Covid. Vi si scontrano due opposte tendenze: la giovane vita e il vecchissimo Tempo che non riesce a guardarsi né a fermarsi (pp. 112-114).

A me questa favola, percorsa da due forze contrastanti (l’inarrestabile vecchiaia del Tempo contrapposta alla vita appena sbocciata del neonato), richiama alla mente un brano musicale che voglio farvi ascoltate: la Passacaglia della vita, di Anonimo, appartenente alle canzonette morali e spirituali fiorite nell’ambiente devoto a S. Filippo Neri (1657). Come molte opere barocche (si pensi all’aria del Tempo nel Ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, 1640 o dalla Rappresentazione di Anima et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, 1600), anche questa passacaglia ha il Tempo come protagonista. Questo brano filippino mi pare renda alla perfezione il paradosso della bella favola di Marje Dolores: da un lato, infatti, sentiamo insistentemente ripetere il memento mori così caro al barocco: bisogna morire. Dall’altro, però, il ritmo di danza travolgente ci riconduce alla forza della vita inarrestabile, davvero come il contrasto tra il neonato e il vecchio nel Volto del Tempo. Tra l’altro anche nella favola si enfatizza l’importanza della musica (p. 110). Ascoltiamo questa splendida passacaglia, interpretata dal tenore inglese Ed Lyon (https://www.youtube.com/watch?v=qdj8FvcXywU).

Non fatevi fuorviare dalla presenza della morte nel brano, assente (almeno superficialmente) in Merenda, concentratevi invece sulla prossimità tra la spiritualità filippina e quella di queste favole: i bambini, l’attenzione agli aspetti pedagogici, la natura, la gioia della musica (e la gioia in genere: «santo della gioia» o il «giullare di Dio» era detto San Filippo Neri), tutti elementi che contrastano con la morte.

Come avete sentito, anche nella passacaglia si fa leva sull’impotenza della parola: «Dottrina non giova, parola non trova / Che plachi l’ardire, bisogna morire, bisogna morire».

La sottrazione della parola, va detto, è alle origini dell’estetica moderna, come dimostra un celebre passo del Trattato del Sublime, dello Pseudo Longino (I d.C.): a volte il silenzio (come quello con cui Aiace accoglie Ulisse, nell’Odissea) «è cosa grande e più sublime di qualunque discorso» (p. 50 dell’edizione curata da Giovanni Lombardo). Per non dire che l’ineffabile è alla base di ogni religione e di ogni spiritualità, con gli straordinari paradossi della tradizione giudaico-cristiana, in cui Dio è al contempo LogosVerbum, cioè parola, che dà la parola all’uomo, sì, ma al contempo è anche indicibile, impronunciabile da parte dell’uomo stesso (Non dire il nome di Dio invano). E per le fantasiose strade dell’etimologia mi piace ricordare l’origine del termine italiano parola, che non deriva dal latino verbum bensì dal greco evangelico parabolèparabola, cioè racconto per paragoni, ovvero prossimo alla favola. Insomma, la natura stessa della parola è fiabesca: sembra davvero il suggello ideale per le favole di Marje Dolores, anch’esse moderne parabole così intrise di spiritualità.

E allora sul potere discreto della parola mi piace concludere tornando all’inizio, alla presentazione dell’autrice (p. 10). La sua, quella delle sue favole, è una parola utile et humile come l’acqua secondo San Francesco, chiara e semplice ma che penetra in profondità, parola sommessa e centellinata, parola che rimane nel subconscio, nel sottobosco emotivo del bambino cui è indirizzata, che alimenta i sogni. Marje Dolores definisce la parola delle sue favole come «una peculiare subirrigazione a goccia con fertirrigazione». Mi piace molto la coincidenza, non so quanto ricercata o casuale, oppure inconscia, che viene a ricondurre il topos della parola sommessa, prossima al silenzio, con l’altro topos della natura, sempre vivo in Merenda. Non soltanto, infatti, la metafora dell’irrigazione riconduce alla terra, vivificata dalla parola fiabesca della raccolta, ma l’acqua-parola è definitiva francescanamente humile, da humus, terra. E la natura prende il sopravvento anche nel Volto del Tempo, come ricordate dal brano letto prima, e anche nel paragonare il Volto del Tempo, per l’appunto, alle «foglie trascinate dal vento», con quella felicissima assonanza tra la parola vento e la parola tempo. Ecco dunque che con profondo senso poetico e musicale i cinque topoi di Merenda si abbracciano in questa favola conclusiva: la forza vitale della natura, del vento e dei bambini, la parola taciuta, il trascorrere inarrestabile del tempo. Tutti insieme questi cinque topoi si stringono e si fortificano reciprocamente, anziché contraddirsi, proprio come le linee musicali della splendida passacaglia.

Anche il secondo esergo einsteiniano del libro (a p. 37) è sul valore del silenzio, in fondo: «L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione racchiude il mondo». La conoscenza è logos, l’immaginazione è invece antilogos, è phantasìa. Ancora una volta, queste favole si sposano bene coi paradossi, di libri che esaltano il silenzio, dello scienziato che depriva di valore la conoscenza e di uno storico della lingua come me, che per professione si occupa di parole, chiamato da Marje Dolores a occuparsi dei densi silenzi del suo ultimo bel volume. 

A questo punto però mi taccio, per non smentire l’esaltazione della concisione e dei silenzi e non ritornare allo strapotere della parola.

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